comiendo a mi madre bebiendo a mi padre








"9, comiendo a mi madre, bebiendo a mi padre", è un'opera
grafica-tessile che impiega come supporto visuale l'abbigliamento, e più
specificamente l'intimo femminile.
Attraverso un simile strumento, l'autrice intende elaborare un
discorso sociale e personale, e, di fatto, l'abbigliamento ha la forza di
legittimare, all'interno del sistema, l'individuo in quanto essere sociale:
solo per il fatto di indossare vestiti, scarpe e “consumare” moda, si può
dire che è un essere integrato nella società.
Ma cosa accadrebbe se lo stesso individuo utilizzasse l'abbigliamento
per esprimere le sue emozioni, autonomia e disaccordo, reagendo in modo
autodidatta e portando i suoi principi e limiti nell'ambito tessile?
L'individualità espressiva sarebbe ancora riconosciuta, legittimata e
rispettata nella società?
In questa presentazione i codici iconografici di riconoscimento
completano ed amplificano la decodificazione dei concetti, che sono stati
considerati nella selezione dei materiali e dei formati, nella metodologia del
processo creativo ed infine anche nel discorso tematico inerente le
proposte estetiche – dell'abbigliamento – e pittoriche – della serigrafia e
dell'illustrazione.
La scelta cromatica del materiale tessile è basata sulla metafora del
Sangue e della transizione, elemento che si può osservare nei 9 moduli, i quali
passano da una tonalità scura – che simbolizza la coagulazione - alla più
diafana inspirata al liquido amniotico.

L'estetica di questi abiti racconta la relazione tra l'autrice ed i
suoi primi incontri con i tessuti, poiché nella sua prima infanzia
accompagnava la madre – che confezionava capi d'intimo femminile – lasciando
inconsciamente spazio ad un gioco complice delle espressioni tra la
stessa autrice e questo formato.
“I tessuti parlano attraverso il disegno, e la memoria attraverso i
tessuti”, principi della tecnica del riciclaggio, che l'autrice costruisce
e confeziona per mezzo dell'abbigliamento.
Unendo i tessuti, la memoria delle forme e le illustrazioni, potremmo
anche considerare che l'estetica utilizzata è collegata con l'epoca
degli anni '50, quando - in Cile - le donne furono esposte a metodologie
sperimentali per il controllo della natalità, che provocarono, tra i diversi effetti disastrosi, malformazioni congenite degli feti.
Si intende considerare le figure di queste donne/madri, che furono contemporaneamente donne/cittadine e che generazioni dopo generazioni hanno vissuto, e continuano a vivere, esposte a diversi eventi interni – come la gravidanza – ed esterni – come gli esperimenti culturali, sociali ed educativi di laboratorio.
Donne/madri/cittadini, uomini/padri/cittadini che vissero durante la gioventù il sistema culturale, educativo ed economico dittatoriale del regime militare, i quali proiettarono i loro timori, fobie e rancori nella crescita dei propri figli. Generazioni di figli del timore.
Trascinando nelle loro quotidianità abitudini traumatiche e tossine culturali, di cui i nostri genitori si alimentarono giorno dopo giorno per molti anni, fino a quando non si ritrovarono in nuovo e sofisticato scenario capitalista, uno spazio per niente favorevole alla ricostruzione, cura e crescita individuale di questi giovani, che invecchiarono e morirono vivendo la dittatura nei loro cuori.


"9, comiendo a mi madre, bebiendo a mi padre", è un omaggio a questi padri e madri ed allo sforzo che fecero per curare le loro ferite, è una critica ad un sistema culturale che non si preoccupa di rigenerare concretamente la coscienza sociale ferita dei cileni e delle cilene, ed ancor meno di coltivare una riconciliazione tra l’incosciente delle persone ed il conflitto sociale che si provocò in loro e nei loro figli.
Quest’opera è un’espressione dell’autrice per eliminare/esorcizzare la convivenza tra la tossina culturale del dolore ed il corpo dei nostri genitori, che a loro volta è un pezzo dei nostri corpi.
Mediante il mezzo simbolico dell’abbigliamento, l’autrice spiega che ci ritroviamo “nel – pero non con il – sistema”. “Siamo una parte dei nostri genitori, però non siamo disposti a commettere gli stessi errori”.
Le illustrazioni sono state create durante il secondo semestre del 2003 nella
Facoltà di Morfologia, luogo in cui si conservano gli embrioni ed i feti affetti da patologie congenite. Durante questo processo l’autrice ha sviluppato i concetti base di quest’opera, ovvero: cultivo-contemplacion-gestacion. In questo contesto le figure dei feti sono un’interpretazione di quegli esseri interni, incerti ed imprecisi che crescono dentro di noi, una rappresentazione tesa alla valorizzazione della sospensione e della deformazione nei gesti, che produce la riflessione, e la paura nel periodo di gestazione, il dubbio di fronte al destino limitato dalla tossina/cultura dei nostri genitori.
Lasciando un invito alla riflessione ed all’interpretazione individuale dello spettatore e della sua memoria personale e collettiva, intendendo le persone/pubblico come un’entità attiva, la cui visione individuale completa gli obiettivi considerati nella mostra in una percentuale proporzionale alla concezione dell’artista/donna/cittadina che è l’autrice.
Invitiamo a liberare i sentimenti innati per iniziare a comprendere il codice più basico ed ugualitario che ci uni e da forma a questa esposizione: il dolore la sua storia emozionale che è il libro in cui riscattiamo e sviluppiamo il linguaggio impiegato in questa documentazione/opera.


http://www.ilfunambolo.it/

@JessicaEspinozaDibruja